La richiesta di terapia da parte di terzi, ovvero: quando parenti, coniugi o amici ci contattano per un’altra persona


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Non è sempre facile accogliere una richiesta di inizio terapia che non proviene dal paziente stesso ma da un'altra persona, gli aspetti nascosti sono tanti

29/05/2020 | 18:43

Si suggerisce l’ascolto di “My favorite things” (J. Coltrane) durante la lettura.

Capita di frequente a noi terapeuti di ricevere richieste di consulenza non da parte del diretto interessato (spesso disinteressato) ma da persone a lui vicine. Questo è uno dei più ardui e frequenti dilemmi da gestire per chi svolge questo lavoro, specie quando la richiesta è fatta con insistenza o ci chiedono con urgenza indicazioni su come comportarsi. A volte chiedono addirittura di venire loro stessi a fare un primo colloquio per spiegare la situazione del loro caro, che è un po’ come se io andassi dal dentista per curare il dente di un mio amico. Per non parlare poi di quando vogliono pagare loro le sedute. In genere sono partner o coniugi affaticati, genitori preoccupati e con sensi di colpa, più raramente anche figli, fratelli, sorelle o amici.

Non si capisce bene se è il chiamante ad aver bisogno di una consulenza o realmente la persona per cui chiama, non è ben chiaro se le cose che ci racconta sono problematiche reali o sue rappresentazioni. Ad esempio, prendiamo il caso di una moglie che ci contatta, preoccupata del fatto che il marito passa molto tempo a giocare alla playstation. Bisognerebbe capire bene se è effettivamente un comportamento problematico del marito (spende troppi soldi per i videogiochi, trascura i figli e il lavoro per giocare, sta sveglio la notte per finire un gioco), o una rappresentazione che sviluppa la moglie rispetto a un marito che non soddisfa un bisogno di lei più profondo e non riconosciuto. In un caso del genere si attiverebbe il classico schema interpersonale che in TMI (Terapia Metacognitiva Interpersonale) si declinerebbe nella seguente modalità: “Io desidero più attenzioni, mio marito gioca a playstation 2 ore al giorno e io me lo rappresento come trascurante, mi sento triste e si riattiva un’immagine di me sola e abbandonata, come quando da bambina mio padre faceva le sue cose anziché giocare con me” (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013). La moglie come reazione potrebbe criticare il marito, diventare lamentosa oppure opprimente (in un ventaglio molto più ampio di possibilità). Il coniuge reagirebbe invalidando ulteriormente il bisogno della moglie. Lui infatti non vede la tristezza e il bisogno di affetto della moglie, ma solo la sua reazione negativa (spesso la rabbia). Non capisce che cosa lei abbia dentro e perché reagisce cosi, anziché giocare due ore, allora ne gioca quattro, così soddisfa anche il proprio bisogno di autonomia da lui percepito come frenato dalla moglie. Da qui prende origine un ciclo interpersonale disfunzionale (Safran, Segal, 1990) che esacerba la conflittualità e può arrivare a inquinare la relazione, fino a che la moglie, esausta, triste e delusa, si convince che il marito ha un problema e contatta lo psicoterapeuta.

Aspetti egosintonici ed egodistonici
Nella maggior parte dei casi chi ci contatta ci racconta che non ci sono segnali evidenti di malessere, ci riferisce che la persona in questione non ha ansia, attacchi di panico o altri disagi. C’è qualcosa che non va ma non sa bene cosa. Gli indicatori osservati dai parenti che ci chiamano sono molto sottili, soffusi, silenziosi, ambivalenti o per niente evidenti. Neanche il destinatario vede il suo malessere, i suoi “sintomi” sono vissuti come normali, non gli creano problemi, fanno parte del suo solito modo di essere e di funzionare, in questi casi noi li chiamiamo “egosintonici”. Per la persona è tutto regolare. In questi casi gli schemi sono rigidi, strutturati e storicamente ben radicati.

Altre volte capita invece che quando i parenti ci chiamano, ci raccontino della messa in atto di atteggiamenti rabbiosi o aggressivi, trascuratezze affettive o tradimenti, dipendenze da sostanze, da gioco, da pornografia o da internet. Questi potrebbero essere già segnali egodistonici, ovvero riconosciuti anche da chi li mette in atto come problematici e causa di malessere e sofferenza per sé o per altri. Ad esempio, una persona che sperpera un patrimonio di famiglia al gioco, tradisce continuamente il partner, tratta male i figli, potrebbe arrivare a rendersi conto di una sua problematicità, si tratta di comportamenti visibili, in un certo senso oggettivi.

Uno, nessuno e centomila: Questi fantasmi sul palcoscenico
Ma che cosa accade invece a noi terapeuti quando veniamo contattati da terze persone? Come reagiamo di fronte a queste richieste? In genere i nostri stati d’animo e i nostri pensieri sono oscillanti, propendono ora per chi ci chiama, ora per il destinatario della richiesta. Infatti, mentre parlo a telefono talvolta mi ritrovo ad annuire col capo provando dispiacere e preoccupazione per quello che mi viene raccontato, si attiva il mio sistema di accudimento e il bisogno di apparire come “un bravo professionista sensibile e disponibile”. Altre volte invece, la persona con cui parlo al telefono mi ispira fin da subito avversione e provo “di pancia” grande solidarietà per questo “fantasma” di cui si parla che viene descritto come problematico, insensibile o peggio ancora disturbato.

 

In entrambi i casi, si attivano in me degli schemi: da un lato il bisogno di salvaguardare l’immagine di bravo terapeuta rispettoso del setting, del codice deontologico ma anche dei bisogni sia del chiamante che del paziente. Ma si attivano dinamiche legate non solo all’immagine professionale ma a quella più intima e biografica (se una distinzione tra le due ci può essere), si tratta di schemi personali: a volte già da subito, il tono della voce dell’interlocutore a telefono può riattivare in me memorie procedurali istintive che mi riportano al tono di voce sgradevole, autoritario o invalidante di qualche figura del mio passato, dando vita a specifiche emozioni, sensazioni e reazioni.

Ad esempio: una mamma “mi porta il figlio da aggiustare come se fosse un frigo rotto”. È apparentemente amorevole e preoccupata, a telefono parla solo lei, velocemente e a voce alta. Non capisco nemmeno bene che cosa dice, il figlio venticinquenne ha effettivamente avuto dei comportamenti problematici abbastanza seri, ma io non sto parlando più con lei, bensì con le figure spiacevoli dei miei ricordi passati. Vedo anche lei allo stesso modo, istintivamente solidarizzo col figlio, povero rampollo oppresso da una madre soffocante e critica. Sembra tutto vero… e invece no… ho sbagliato tutto. Grazie alle operazioni di disciplina interiore, che a volte non so nemmeno io bene che cosa sono e da dove vengono, riesco a tornare in me e a riflettere sul fatto che è tutto un teatrino: quello che dice la madre a telefono, l’idea che mi sono fatto di lei e del figlio e anche le emozioni e lo schema che si è riattivato in me, non è vero niente, è tutto finto, stiamo tutti su un palcoscenico. I personaggi che posso veder recitare sono i seguenti: la rappresentazione che la madre ha del figlio, la rappresentazione che la madre ha di me (un tecnico aggiustatutto), la rappresentazione che sia la madre che il figlio hanno di me (mentre guardavano il mio sito assieme), la rappresentazione che ho io della madre e del figlio e ovviamente, la rappresentazione che ho dell’altro presente nei miei ricordi con conseguente immagine di me dolorosa che si è riattivata. Tutto questo dopo due minuti di telefonata, non male.

È in momenti come questi che fantastico su quanto possa essere rilassante pascolare le pecore, coltivare la terra in una bella campagna o su “come sposare un milionario” pur essendo etero, ma tanto “nessuno è perfetto”. Poi però torno in me, torno in guerra, sul campo di battaglia e provo a gestire la situazione in modo consapevole e attento. Dunque, cerco di validare la signora, le spiego che comprendo tantissimo la sua preoccupazione (e la comprendo davvero non è che faccio finta) e molto candidamente, le chiedo in modo garbato di passarmi il figlio o meglio ancora di farmi chiamare da lui. 3-0 per me, vittoria netta e meritata.

Altra situazione, un padre sessantenne seriamente preoccupato per il ritiro sociale del figlio trentenne. Lavorano assieme nell’azienda di famiglia, il padre a telefono: “Dottore esce di casa solo per lavorare, non ha una fidanzata, non ha interessi, vive con la mia ex moglie (la madre) e non prende iniziativa per fare nulla. Anche in azienda fa tutto quello che dico io, senza mai protestare, lavora anche 14 ore al giorno, ma io lo vorrei più partecipe, lui è molto brillante anzi è un genio nel suo campo, però vi avviso, non vuole assolutamente sentir parlare di psicologi”. Fin qui tutto ok, anche questa sembra una richiesta legittima di un padre preoccupato, io comincio a sentire odore di personalità coartata nel figlio e a chiedere altro su di lui. Fino a che il padre, con nonchalance disarmante, mi dichiara che lui (padre) deve avere l’ultima parola su ogni cosa che accade nell’azienda, che non si fida del figlio, gli affida solo mansioni di poco conto e non lo ritiene capace di portare avanti l’attività. Ecco, qui è più difficile, il padre vuole anche pagare lui le sedute e far venire il figlio in terapia con l’inganno: arrivandogli a dire per motivarlo che inizierà pure lui una terapia con me, un macello. Non solo, il padre insiste per fissare lui un appuntamento per il figlio e non me lo passa a telefono, devo insistere cercando però di non innescare una competizione di rango: né in una subroutine di dominanza né in quella di sottomissione (Liotti, Monticelli, 2014). Alla fine rimaniamo che il padre fissa l’appuntamento ma il figlio me lo dovrà poi confermare appena possibile.

Strappo un pareggio nei minuti di recupero dopo una partita giocata male, intanto sempre di più il profumo aspro delle pecore e il suono del flautino da pastore diventano vividi nella mia mente.

Connessione e fiducia
Quanti casi del genere che capitano, a volte madri e padri chiamano separatamente, in totale disaccordo tra loro su come procedere e ovviamente all’insaputa del figlio. In casi simili le rappresentazioni di “altro” si moltiplicano in modo esponenziale e incontrollabile. A volte, entrano in campo, gagliardi, anche i nonni, desiderano essere coinvolti, vogliono sapere cose o chiedere consigli senza però far sapere ai figli (i genitori del povero paziente) che mi hanno chiamato, una catena transgenerazionale dinastica di “vedo e non vedo”, “vorrei ma non parlo”.

Sono dinamiche interpersonali che ci attivano molto sul piano del carico emotivo e della fatica, spesso difficili da gestire perché in pochi secondi, già durante una telefonata, si deve riconoscere e capire cosa sta accadendo. Se poi queste persone riescono ad arrivare al primo colloquio, la terapia parte già male e, per portarla avanti, è necessario un grosso lavoro sulla relazione e sull’alleanza che non sempre riesce. Non basta rassicurali sul segreto professionale, del fatto che non si dirà nulla ai genitori, che dopo il contatto iniziale il ruolo degli altri termina qui eccetera. Devo faticosamente e genuinamente trovare occasioni di sintonizzazione e connessione sincera.

Sono questi reciproci “momenti di incontro” (now moments) i veri promotori del cambiamento terapeutico. Siamo seduti uno davanti all’altro come due strumenti musicali diversi tra loro, un violino e un clarinetto, che si accordano armoniosamente mediante lo sguardo, il tono della voce, la postura e altri aspetti non verbali, mentre si parla del più e del meno, permettendo al paziente di fidarsi e di affidarsi (BCPSG, 2012; Liotti, Fassone, Monticelli, 2017; Porges, 2014). Devono specchiarsi in un mare calmo, sicuro e accogliente.

D’altronde:

"un bravo terapeuta deve comprendere di che cosa abbiano bisogno i suoi pazienti per sentirsi al sicuro, e deve darglielo. In questo modo permetterà ai pazienti di lavorare per adattarsi meglio alla loro realtà e padroneggiare i loro problemi" (Gazzillo, 2016).

Giustamente queste persone non si fidano, non volevano nemmeno stare lì nel nostro studio, non è una loro scelta, il terapeuta nella migliore delle ipotesi è un estraneo con cui non si ha voglia di parlare, nella peggiore uno strizzacervelli pagato da altre persone con cui è in combutta per manipolargli la testa e i comportamenti. Il drop out è molto probabile. Sono questi i casi in cui ingenuamente penso che ritoccare la mia tariffa possa essere una soluzione (mio coping), fintanto che la mia mente (altro mio coping), torna ancora ai pastori e alla terra: “l’aria della campagna, carica di letame, spostava vibrazioni di una vita troppo bella”.

Vito lupo
 


Bibliografia:
Boston Change Process Study Group (2012) Il cambiamento in psicoterapia. Milano: Raffaello Cortina Editore.


Gazzillo, F. (2016). Fidarsi dei pazienti. Milano: Raffaello Cortina Editore.


Liotti, G., Monticelli, F. (2014). Teoria e clinica dell’alleanza terapeutica. Milano: Raffaello Cortina Editore.


Liotti, G., Fassone, G., Monticelli, F. (2017) L’evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali. Teoria, ricerca, clinica. Milano: Raffaele Cortina Editore.


Porges, S.W. (2014). La Teoria Polivagale: fondamenti neurofisiologici delle emozioni, dell’attaccamento, della comunicazione e dell’autoregolazione. Roma: Giovanni Fioriti Editore.


Safran, J.D., Segal, Z.V. (1990). Il processo interpersonale nella terapia cognitiva. Feltrinelli (1993).