La “rivoluzione cognitiv(ist)a” del Terapeuta Sapiens, e dopo cosa ci sarà?


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Se è vero che la terapia personale per un terapeuta è fondamentale, perché non tutti la fanno? La self-disclosure è una manovra pericolosa oppure contribuisce a una maggiore sintonizzazione col paziente, favorendo una maggior vicinanza? Che influenza hanno questi aspetti sulla relazione terapeutica?

29/05/2020 | 19:01

Si suggerisce l’ascolto del brano Preludio (Osanna, 1972) durante la lettura.

Questo articolo nasce con l’intenzione di contribuire allo stimolante dibattito iniziato in seguito alla pubblicazione di un articolo della collega Alessia Zoppi La terapia personale nel percorso di formazione specialistica dello psicoterapeuta: centralità formativa o scelta soggettiva? a cui ha risposto Giovanni Maria Ruggiero con La self disclosure e i rischi degli psicoterapeuti cognitivo comportamentali nella relazione terapeutica.

Accordi e disaccordi
Parto dal presupposto che mi trovo in accordo con alcune posizioni di entrambi. Sono d’accordo con la collega Zoppi quando sottolinea l’importanza della psicoterapia personale (anche se lei parla di analisi) per ogni terapeuta (o analista). Al riguardo ne avevamo già parlato (proprio qualche giorno prima della pubblicazione dell’articolo della collega) io e Virginia Valentino in L’intreccio tra la supervisione e la psicoterapia personale.

Insomma la terapia personale per un terapeuta è fondamentale. Perché allora non tutti la fanno? Non sottovalutiamo il fatto che ha un costo e non è basso. Spesso durante la scuola molti studenti non se la possono permettere, non rimaniamo solo su aspetti psicologici (resistenze o schemi personali), ma teniamo anche conto di questi aspetti reali (economici) che incidono notevolmente. Stesso discorso riguarda la supervisione e la formazione. Certe scuole di stampo psicodinamico richiedono sedute anche bisettimanali, alcune addirittura richiedono un tot di monte ore certificato (presso i loro stessi docenti) anche solo per potersi iscrivere. Credo sinceramente che anche questo spinga molti giovani laureati a scegliere le scuole di orientamento Cognitivo-Comportamentale. Mi sembra una situazione molto simile a quella che spinge i pazienti meno abbienti a rivolgersi e agli psichiatri dell’ASL pagando solo il ticket, ai counselor e altre figure periferiche anziché accedere alla psicoterapia negli studi privati. Concordo anche con Ruggiero quando risponde alle vedute, a mio parere, un po’ stereotipate della collega. Ad ogni modo, senza scomodare Freud, Ferenczi e ancora più anacronisticamente Lacan (lasciamoli riposare), la terapia personale, almeno per me, è indispensabile, non solo come persona, ma anche come terapeuta. Non è questa la sede per specificarne i motivi. Rispondendo comunque a entrambi i colleghi cerco di portare avanti la mia formulazione. In particolare quando Zoppi scrive:

La terapia cognitiva, diversamente dalla psicoanalisi, ha tre grandi aree di problematicità: 1) un’attenzione settoriale al disturbo; 2) il trattamento solo del sintomo con il rischio di nuove ricadute e cronicizzazione.
Eccoci ancora alle prese con questa storia. Una volta mi ritrovai ad un convegno a relazionare con un collega psicoanalista ortodosso, io mi stavo aprendo ormai da tempo ad assimilare nuove prospettive e avevo voglia di un confronto con lui, fui gelato quando mi disse qualcosa tipo: “Certo che voi cognitivisti che volete cambiare i pensieri della gente…”. Voglio ricordare che con la parola “Cognitivo”, della locuzione “Terapia Cognitivo-Comportamentale”, non si intendono solo i pensieri automatici negativi di Beck, la CAS (Cognitive Attentional Syndrome) di Wells o le varie forme di pensieri superficiali appartenenti al “qui e ora” indagati da tanti altri autori. Ci sono ben altri aspetti del funzionamento mentale, ad esempio, quelli che lo stesso Beck chiamava “Core Beliefs”, Ellis “Credenze Disfunzionali Irrazionali”, mi vengono in mente anche gli schemi di Piaget, i MOI di Bowlby o la formulazione della Terapia Metacognitiva Interpersonale per i Disturbi di Personalità che poi riprenderemo. Attengono tutti ad una concezione a mio parere “cognitivista” (nella mia interpretazione inteso come un atteggiamento clinico, operativo verso il funzionamento mentale) e non cognitiva (cioè un atteggiamento puramente teorico, speculativo o accademico). Questo per dire che la psicoterapia cognitiva non è solo quello dei servizi pubblici anglofoni e dei protocolli “evidence based” di 8-12 sedute di cui si pubblica tanto. Potrei anche semplicemente dire che non è vero, che la collega si sbaglia, nei primi mesi del 2020 non è così, se lo è ancora negli altri stati questo non lo so, ma adesso in Italia non è così (o almeno lo spero). Ancora, la collega scrive:

Nella terapia cognitiva (come in altri modelli) il rischio di usare la self-disclosure può indurre un contatto e apertura eccessive fino a veri e propri processi di inversione del ruolo.
Ruggiero replica affermando che nella self-disclosure vi è insito un aspetto cognitivo:

Normalizzazione del disagio giudicante che il paziente sente verso i propri stati d’animo, ma soprattutto c’è un aspetto relazionale: la normalizzazione funziona non per il suo contenuto tecnico ma perché il terapista crea quella situazione di massima condivisione che è, la rivelazione di sé all’altro, la rottura della parete.

Continua: E però confessiamolo: questa è una risposta pedante. Chiediamoci invece: e se avesse ragione Zoppi? E se malgrado tutte le teorie fosse concretamente possibile che il terapeuta cognitivo sia a rischio di un eccesso di accudimento e condivisione con il paziente?

Duetto e aria
Ma che cos’è la self-disclosure e a cosa serve? Credo sia più facile a farsi che a dirsi. Nella mia esperienza contribuisce a una maggiore sintonizzazione col paziente. E’ qualcosa che favorisce (agita nel modo e nel momento giusto), una maggiore risonanza, una vicinanza, non è quindi, almeno secondo il mio modesto punto di vista, semplicemente una “normalizzazione” o una “condivisione”. Anche (ma non solo), la self-disclosure favorisce i cosiddetti “now moments”:

In un “momento di incontro” gli aspetti transferali e controtransferali sono ridotti al minimo, mentre viene messa in gioco l’umanità dei due partner, relativamente liberi dai vincoli del loro ruolo. (BGPSG, 2012)
Si vive sulla pelle di entrambi:

La percezione immediata di essere simile all’altro. (Salvatore, Dimaggio, Ottavi, Popolo, 2017).
Alcuni tra gli aspetti cardine di una buona relazione terapeutica riguardano quello che succede all’interno di un contesto relazionale reale: simpatia reciproca, affinità, condivisione di interessi o passioni comuni e anche ovviamente i vissuti e agiti transferali e controtransferali, i pazienti vivono la relazione terapeutica come i rapporti reali, per loro invalidanti o dolorosi (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013). Un terapeuta cautamente trasparente, poco criptico, che fa vedere la sua mente, anche con qualche self-disclosure, sicuramente aiuta a creare il prerequisito indispensabile della sintonizzazione per ogni terapia, oltre a favorire nel paziente una maggiore comprensione degli stati mentali altrui, abilità in lui molto o del tutto assente. Tornando al discorso dell’utilità della terapia personale, Ruggiero scrive:

Il problema non è introdurre o meno l’analisi personale, ma introdurla senza ripensare e, se è il caso, esplicitamente lasciarsi alle spalle i principi del paradigma clinico cognitivo comportamentale in relazione al rapporto tra formazione e analisi personale. Il rischio è trasformare questo inserimento nella solita iniziativa eclettica che sta diventando la vera debolezza dell’ambiente cognitivo in senso lato, un ambiente ombrello in cui si infila di tutto.
Secondo me, la terapia personale, proprio alla luce di un approccio clinico di stampo cognitivo, ma comunque strutturato sugli schemi, ritengo sia importante se non indispensabile. Nel bene e nel male, dovremmo aprirci alle varie “iniziative eclettiche”, con esiti, certo, non sempre proficui. Il fatto è che siamo nel corso di un fiume in piena, c’è un fermento nel mondo clinico che non accenna a estinguersi (fortunatamente), non dobbiamo e non possiamo giacere nelle rassicuranti pozze. Nel fiume dell’integrazione non possiamo rimanere sulle sponde della rigidità (Siegel, 2017). Ancora Ruggiero:

Non per nulla ci siamo inventati il fantasma interno del paziente difficile, il mostro che ci molla lì in seduta e se ne va perché sbagliamo una parola.


In realtà è un fantasma incarnato e davvero esistente, nella sofferenza del paziente, nei suoi schemi e in quelli del terapeuta. Contribuiamo anche noi, appunto con le nostre rappresentazioni sul paziente e i nostri schemi a farlo droppare, forse sbagliando qualcosa in più di una singola parola. Spesso poi, non ce ne rendiamo nemmeno conto e di conseguenza, non ripariamo una microfrattura relazionale che anche con una self-disclosure appropriata e sentita, una metacomunicazione o lo svelamento di un proprio stato interno (o di un “controtransfert”) consente di favorire un clima più caldo senza proteggere troppo il paziente. Che poi nel mondo relazionale traumatico e/o invalidante in cui è vissuto, proteggiamolo pure un pochino il nostro pazientino. Ovvio che poi, tutto dipende dalle caratteristiche del paziente e dalla fase terapeutica in cui ci troviamo, decentriamoci da noi stessi e cerchiamo di capire il suo “piano”, quanto si fida, il suo bisogno attivo quel momento, i suoi obiettivi sani, i traumi, relazionali e non, che vorrebbe gestire, i sensi di colpa e le credenze patogene che sta cercando di testare (Gazzillo, 2016), con noi, essere umani, prima che terapeuti.

Recitativo e cavatina
Forse siamo un po’ traumatizzati, forse siamo sempre un po’ dissociati. (Ruggiero)
E’ vero. Io lo sono spesso. A volte mi “traumatizzo e mi dissocio” anche in seduta. Tuttavia cerco di riconoscere e modulare questi stati interni, a volte facendo vedere anche dei pezzettini della mia mente al paziente. Questo gli permette di riconoscere anche i suoi stati interni e le memorie associate incarnate da cui si sono schematizzati (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019). Da qui c’è la svolta. Giochiamo a carte scoperte e il clima in seduta diventa sereno e rilassato. In questo stato relazionale di “sintonizzazione preriflessiva elevata”, oltre alle tecniche TCC, possiamo concordare col paziente anche di correre nudo in un bosco norvegese innevato (Encouragement of Risk Taking), ci andrà perché mi ha sentito vicino (senza per forza diventare attaccamentologi Bowlbiani o Winnicottiani), lo ha sentito dalla persona, non perché glielo ha detto il clinico che segue i protocolli “evidence based”. E infine, sempre Ruggiero:

Grazie Liotti, sul serio; anche se rimaniamo diffidenti verso la forzata ricerca di una serie di interventi relazionali alla ricerca della cooperazione come esito: ecco dove potrebbe celarsi il rischio accuditivo, nella ricerca della cooperazione come esito e non come connotazione. 


Grazie Liotti davvero.

Vero è che la cooperazione non la si cerca e non la si forza, è qualcosa che emerge in seduta, nell’autenticità relazionale, nella condivisione di stati mentali, esperienze e anche vissuti (senza esagerare), nel piacere reciproco di stare assieme in pochi metri quadrati di spazio. Inoltre, non è un fine o un esito da agguantare, ma lo “strumento” che ci permette di raggiungere gli obiettivi terapeutici condivisi e cooperativamente concordati. In tal senso allora, non ci vedo nessun rischio accuditivo, anche perché la cooperazione è un sistema semplicemente diverso dall’accudimento: sia ad esempio per l’origine e la finalità evoluzionistica, sia per l’assetto emotivo e relazionale. Si può passare così dai SMI di secondo livello (di cui la cooperazione e l’accudimento, secondo l’architettura liottiana), alla sintonizzazione intersoggettiva (Liotti, Monticelli, 2008), qualcosa di più elevato che muove pure le montagne innevate norvegesi. E qui torna il discorso dei “now moments” e della sintonizzazione tra paziente e terapeuta in seduta (Meta-self-disclosure: perdonate i rimandi alla Norvegia ma i miei spazi e i miei tempi domestici in questi giorni sono dominati dal secondo capitolo di un celebre film d’animazione per bambini ambientato appunto tra le nevi e i ghiacci norvegesi). In ogni caso possiamo fare interventi sulla relazione, non solo per accudire o proteggere il paziente, ma anche (e forse soprattutto) per aiutarlo a esplorare meglio il suo mondo interno, lo stato intersoggettivo della relazione e anche la mia mente. Mi viene in mente un caso recentissimo: rivedo una paziente in seguito a un tentato suicidio tramite impiccagione e relativo ricovero psichiatrico. Lei è orfana di padre e con madre psicotica ricoverata da decenni in un centro residenziale. La terapia andava bene, la famiglia (allargata) ad un certo punto si è intromessa ed è stata costretta a interrompere il percorso. Quando l’ho rivista, dopo 3 mesi, era distrutta, consumata nel corpo, nell’animo e nell’energia. Dimagrita e consunta come un malato terminale. Gli occhi erano opachi e spenti. Ad un certo punto della seduta, verso la fine, ho voluto rischiare, ho fatto un intervento un po’ avventato, ma sincero, conoscevo il funzionamento della paziente e lo potevo fare. Con un accenno di sorriso le ho detto: “Quindi adesso ha imparato a realizzare un cappio? In effetti lei è sempre stata brava con le attività manuali. E’ una cosa che io non saprei fare, a pensarci mi sembra davvero difficile, è vero? Come si fa?” La svolta. Ha cominciato a sorridere. Ho rivisto la luce nei suoi occhi, la sua postura curva è cambiata, le spalle si sono allargate facendo emergere il petto, mentre con voce vivace, ridacchiando sommessamente, mi ha raccontato come si costruisce un cappio e le difficoltà incontrate nel farlo. Ad un certo punto si è fermata e mi ha guardato fisso negli occhi. Era sorpresa. Forse del suo cambiamento di stato mentale. Le ho detto che mi sono permesso di dire quella frase perché ero abbastanza sicuro che potevamo anche permetterci di ironizzare assieme su una cosa così drammatica. Mi ha risposto: “Si è vero”. Le ho fatto notare il passaggio di stato e i correlati emotivi e paraverbali. Senza troppa retorica né troppo buonismo. Poi c’è stato un momento di commozione, anche io mi sono commosso (ma senza lacrime) e se ne è accorta. Eravamo vicinissimi. Mi ha sentito. Lo scopo non era quello di farla piangere o ridere su una sua sofferenza. Avevo compreso che in quel momento lei non aveva bisogno di essere accudita, di ricevere affetto, tantomeno di essere sostenuta, incoraggiata per il suo presente difficile e il suo futuro incerto, ovvio che non aveva bisogno di essere rimproverata, giudicata e nemmeno validata nella sua autonomia per quel gesto di protesta rabbiosa estremo. Ho compreso che in quel momento aveva bisogno solo di sentire una persona vicina, complice. Come quando ci si guarda negli occhi senza parlare sapendo che si sta pensando la stessa cosa, divertente o triste che essa sia.  

Ecco questo non è assolutamente accudimento, manco cooperazione, forse è questa la dimensione intersoggettiva della relazione? Qui non c’è rischio di accudimento, tantomeno gli effetti iatrogeni della self-disclosure. Solo dopo, mentre mi raccontava come si realizza un cappio, si è attivato il sistema cooperativo, “shiftando” poi sull’attaccamento quando si è commossa. Questo passaggio non poteva realizzarsi se prima non andavamo su un sistema di ordine superiore: l’intersoggettività, la sintonizzazione. Solo in condizioni di sicurezza relazionale poteva permettersi di viversi un dolore immenso e di chiedere aiuto.

Gran finale fugato
Concludendo, e replicando ai colleghi sulla presunta superficialità degli approcci cognitivisti, mi sembra che non si tenga conto degli enormi sforzi che si stanno facendo negli ultimi anni da vari orientamenti e scuole di pensiero che, partendo da una base sia psicodinamica, sia cognitivista, hanno cercato e stanno cercando, di indagare e di agire su dinamiche mentali, corporee, emotive o comportamentali più strutturate. Mi viene in mente la Schema Therapy, la corrente Cognitivo-Evoluzionista, la Control Mastery Theory, alcuni filoni bottom-up relativamente più recenti come la Mindfulness, la Sensorimotor o l’EMDR (ovviamente con tutti i suoi limiti). In particolare, la Terapia Metacognitiva Interpersonale per i disturbi di Personalità (Dimaggio, Ottavi, Popolo, Salvatore) sta svolgendo negli ultimi anni un tentativo, non di integrare, ma di fondere diversi ambiti tradizionalmente afferenti in modo rigido alla psicodinamica, alla psicologia “del profondo”, con orientamenti riduttivamente definiti cognitivisti e altri approcci tipici dell’area bottom-up o gestaltica. D’altronde lo stesso Dimaggio, uno dei fondatori della TMI, è stato definito il “più cognitivista tra gli psicodinamici e il più psicodinamico tra i cognitivisti”. A mio parere non si tratta di un processo di integrazione tra vari orientamenti, tecniche o procedure consolidate. La pizza Margherita non è l’integrazione tra focaccia, fiordilatte, basilico e pomodoro, è la pizza Margherita “tout court”. Io la vedo ben più di un’integrazione, non c’è nessuna volontà, nessuno sforzo cosciente nel fare questo, almeno non mi sembra. Credo che si tratti in realtà di un sforzo non solo accademico e teorico, ma anche e soprattutto clinico, perché è lì che la TMI sta sortendo gli effetti più evidenti, proprio dove meno risuona, all’interno degli studi clinici (“Stiamo vedendo che sta roba funziona”, cit.). Non è qualcosa alla Orson Welles quando diceva: “Il talento copia il genio ruba”. La TMI non sta integrando ma sta attingendo, sta cucinando dei buoni ingredienti per una cucina ricercata. Le varie procedure, tecniche, visioni si stanno compattando in un unico corpus teorico, clinico, applicativo e procedurale solido, coerente e compatto. Tutto questo ha un effetto iatrogeno positivo molto stimolante giacché sta producendo un avvicinamento tra diverse prospettive, diversi orientamenti anche storicamente distanti tra loro, diverse formazioni accademiche e terapeutiche.

Leggi gli altri articoli sull’argomento:

Zoppi, A. (2019) La terapia personale nel percorso di formazione specialistica dello psicoterapeuta: centralità formativa o scelta soggettiva? – Pubblicato su State of Mind il 26 Novembre 2019

Ruggiero, G.M. (2019) La self disclosure e i rischi degli psicoterapeuti cognitivo comportamentali nella relazione terapeutica. Pubblicato su State of Mind il 28 Novembre 2019

Lupo V. e Valentino V. (2019). L’intreccio tra la supervisione e la psicoterapia personale. Pubblicato su State of Mind il 20 Novembre 2019

 
 
Bibliografia:
The Boston Change Process Study Group (2012). Il cambiamento in psicoterapia. Raffaello Cortina Editore: Milano.


Dimaggio G., Montano A., Popolo R., Salvatore G. (2013). Terapia Metacognitiva Interpersonale dei Disturbi di Personalità. Raffaello Cortina, Milano.


Dimaggio G., Ottavi P., Popolo R., Salvatore G. (2019). Corpo, immaginazione e cambiamento. Terapia metacognitiva interpersonale. Raffaello Cortina Editore, Milano.


Gazzillo, F. (2016). Fidarsi dei pazienti. Milano: Raffaello Cortina Editore.


Liotti G., Monticelli F. (2008). I Sistemi Motivazionali nel dialogo clinico. Raffaello Cortina Editore, Milano.


Salvatore G., Dimaggio G., Ottavi P., Popolo R. (2017 ). Terapia metacognitiva interpersonale della schizofrenia. La procedura formalizzata di intervento. Milano: Franco Angeli Editore.


Siegel D. (2017). I Misteri della Mente. Raffaello Cortina Editore, Milano.


Zoppi, A. (2019) La terapia personale nel percorso di formazione specialistica dello psicoterapeuta: centralità formativa o scelta soggettiva? State of Mind.


Ruggiero, G.M. (2019) La self disclosure e i rischi degli psicoterapeuti cognitivo comportamentali nella relazione terapeutica. State of Mind.


Lupo V. e Valentino V. (2019). L’intreccio tra la supervisione e la psicoterapia personale. State of Mind.