Non ce la faccio più: la fatica di un terapeuta.


news_cover
Ed è qui che diviene sempre più chiara l'immagine di me positiva, adeguata, efficace, collegata al mio desiderio di essere una brava terapeuta. Io quel dolore lo posso sopportare, quella sofferenza la posso ascoltare senza rimanerne impigliata.

28/12/2020 | 19:22

“Non ce la faccio”. La frase più comune che almeno una volta (se siamo molto fortunati), nella vita professionale e personale abbiamo pensato e forse anche pronunciato a chi sentivamo comprenderci senza giudicarci. In questa piccola frase è riassunto molto delle nostre esperienze. È riassunto anche molto di ciò che proviamo emotivamente. A questa frase non può che accompagnarsi un’emozione molto forte come la paura o l’ansia, condita con un nucleare senso di inadeguatezza, di non valore. 

Ed è proprio questo che ha caratterizzato molte delle mie sedute, seppur inizialmente si manifestava con un senso sgradevole di fastidio interiore. Questo fastidio, non meglio definito, emergeva nel momento in cui avevo dinnanzi a me pazienti, persone, che richiedevano il mio aiuto, portandomi il loro dolore e le loro modalità di gestione della sofferenza, travestite da strategie funzionali. Spesso proviamo delle emozioni che non meglio riusciamo a capire e che quindi definiamo fastidio e a cui cerchiamo di sfuggire. Nell’attimo in cui, però, siamo capaci di disciplina interna, di non fuggire ma di sviscerare tale indefinito stato d’animo soffermandovici sopra, è allora che le definiamo per ciò che sono. Un po' ciò che facciamo fare ai pazienti: “Ci stia su, non lo rifugga, che cosa avverte?”.   Lo ammetto, non è stato affatto facile riuscire a riconoscere che tale fastidio non era altro che un mio personale modo di mascherare la paura, vedi sopra, per un mio nucleare senso di inadeguatezza.

Tutto qui?

No.

Sentivo che c’era ancora altro sotto.

Un’aspettativa di incapacità verso le mie possibilità di poter accogliere quel dolore, quella sofferenza dinnanzi a me. Tale nucleare senso di inadeguatezza era condito da una bella dose di incredulità verso ciò che realmente, non tanto i miei interventi, ma le mie spalle potessero sostenere e la mia pancia potesse tollerare, del grande dolore che il paziente avrebbe espresso. Grazie alla Terapia Metacognitiva Interpersonale sappiamo che le immagini che abbiamo di noi stessi guidano le nostre azioni e i nostri stati d’animo.

Si attiva un nostro desiderio (Wish) e ci aspettiamo automaticamente che se ci muoviamo verso la realizzazione di quel bisogno, gli altri in qualche modo ci invalideranno. Questo fa emergere contemporaneamente una risposta emotiva, fisica e un’immagine negativa nucleare di noi stessi. In risposta a tutto questo spesso, senza rendercene conto, mettiamo in atto tutta una serie di comportamenti o stati mentali, volti in qualche modo a regolare le emozioni e a proteggerci dal dolore.

Fortunatamente il nostro desiderio è collegato anche con l’immagine di noi positiva che ci porta ad agire per la realizzazione dello stesso, seppur quando lo schema maladattivo è predominante, questa è in ombra. Tutto ciò possiamo riassumerlo con: Schema Interpersonale (Dimaggio et al 2013; Dimaggio et al. 2019). Esempio: vorrei essere apprezzata e sentirmi una psicoterapeuta efficace ma mi aspetto che l’altro possa essere indifferente o possa soffrire a seguito del mio intervento, ciò mi fa percepire incapace ed inadeguata. Tutto questo genera in me uno stato d’animo di paura e una conseguente strategia di evitamento: meglio che non faccio nulla. Strategia di coping disfunzionale: ascolto passivamente senza proferir parola.

E che cosa ci viene naturale fare quando abbiamo paura?

Scappare. 

Emotivamente questo si coniuga con una modalità tecnicamente definita evitamento. 

Per i non addetti ai lavori l’evitamento è quel comportamento, quella vocina interiore che ci porta a cambiare argomento, parlare del più e del meno, del tempo o di rispondere con frasi generiche e intellettualizzanti, nel migliore dei casi, nel peggiore ad ignorare apertamente ciò che l’altro dice o ciò che vediamo dinnanzi ai nostri occhi. E come si fa a gestire tutto questo? Con molte supervisioni ed un percorso personale, con una persona esperta che gentilmente ti prende per mano e poco alla volta, dove la tua paura ti permette di arrivare, ti porta a vedere questo funzionamento collegato al tuo schema interpersonale. Innalzando sempre più l’asticella di tolleranza e di consapevolezza metacognitiva, lavorando sulla zona di sviluppo prossimale, per dirla alla Vygotskij. 

E proprio per contrastare le digressioni, per non allungare il brodo, arriviamo al punto centrale, cosa avviene quando siamo in grado di gestire tutto ciò in seduta. Ed è proprio quello che mi è successo in una delle mie ultime sedute, dove stavamo esplorando territori caldi del mondo interiore della paziente che chiameremo Daniela, tutto compattato in un ricordo doloroso. Daniela stava raccontando una memoria associata al suo percepirsi fragile. Questa memoria associata sprizzava dolore da ogni poro, come una diga che inizia a perdere una goccia per volta da una piccola crepa. Ciò me lo faceva notare il comportamento non verbale di Daniela: distoglieva lo sguardo, si muoveva sulla sedia come se ci stesse scomoda, ed una leggerissima, quasi impercettibile, lucidità nei suoi occhi, la sua voce era quasi normale, se non fosse per una piccolissima rottura nella stessa che abilmente gestiva.

Ma invece dentro di me?

Che cosa stava succedendo?

In quel momento anche io percepivo un certo senso di scomodità e, vedi sopra, di fastidio. Ero consapevole cognitivamente che ciò che mi stava raccontando avrebbe sciolto in lacrime chiunque mentre lei stava trattenendo, come una diga, quell’emozione. Ed io ero lì a sentire quel senso di fastidio, di scomodità, prender forma e rivelarsi per ciò che realmente era: paura. Mai credere che il fastidio, o la classica non-emozione definita male sia tutto lì. Come stai? Cosa provi? Risposta: male. Risposta: fastidio. Tac! 1000 campanelli d’allarme ad evidenziare la necessità di approfondire. Disciplina interiore e giù di domande.

Tornando al mio di fastidio, che altro non era che paura, proseguo il mio cammino di disciplina interiore. E che cosa mi porta a fare la paura? Evitare. Eh si perché Daniela sta contenendo un dolore, un dolore che per voler essere contenuto deve essere molto forte, molto profondo. Forse è il caso di lasciar stare, forse è meglio mettere un po' di stucco vicino a quella crepa e lasciare che la diga regga finché può. Così posso proteggerla da quel dolore, così posso proteggere anche me dal dolore di scoprirmi inadeguata, incapace di poter gestire quella sofferenza. Ma questo è davvero ciò che farebbe bene a Daniela? Daniela è qui, di fronte a me, per questo? No. Questo è ciò che farei io in risposta al mio schema, e io so bene che gli schemi vanno interrotti, messi in discussione, non assecondati. E che cosa faccio? Disciplina interiore e perseguo il mio desiderio, il mio Wish. Ed è qui che diviene sempre più chiara l’immagine di me positiva, adeguata, efficace, collegata al mio desiderio di essere una brava terapeuta. Io quel dolore lo posso sopportare, quella sofferenza la posso ascoltare senza rimanerne impigliata. E come dice un mio maestro: “non dobbiamo proteggere i nostri pazienti dal dolore”. E così approfitto della pausa che Daniela fa, per dirle ciò che ho visto e percepito, di vedere che nel suo corpo c’è stato un mutamento, che nella sua voce si è percepita una piccola rottura, che il suo sguardo sembra essere cambiato ma che sembra che lei stia lottando per tenere tutto lì bloccato, immobile, sotto controllo dentro di lei. E in quel momento sento dentro di me esplodere, come un fiume che rompe una diga di contenimento, un grande dolore. Sento i miei occhi che iniziano a pungere, come se stessero per riempirsi di lacrime. Proprio in quell’istante Daniela inizia a piangere dando a me la possibilità di cancellare, almeno momentaneamente, la mia paura di non farcela, e la sua necessità di controllare ciò che provava. Dopo questo momento significativo e molto intenso, la seduta è proseguita permettendoci di esplorare il dolore, il senso di responsabilità e di colpa, che erano lì silenziosamente scomode, dentro di lei. 

Ciò che ho voluto far emergere in questo breve report è quanto sia forte il potere della disciplina interiore nel momento in cui il terapeuta sa leggere dentro di sé ciò che accade e sa scinderlo da ciò che il paziente stia provando. Su quanto gli schemi, anche del terapeuta, possano determinare l’andamento della seduta. 

La disciplina interiore, giusto per ribadirlo, è quella capacità di leggere e regolare ciò che il paziente in seduta ci attiva emotivamente, sfruttandola come informazione, al fine di indirizzare i nostri interventi e regolare la relazione terapeutica (Salvatore, 2015). E a ciò si collega un altro grande insegnamento dei miei maestri: “un occhio al paziente, uno dentro di noi, e contemporaneamente entrambi alla relazione”.

Ciò che mi è fortemente rimasto di questa esperienza in cui sono stata capace di attuare questo processo di disciplina interiore e contrasto dello schema, è che la cosa difficile è solo compiere il primo passo, il secondo è una diretta conseguenza naturale di quel primo, così tanto difficile, così tanto temuto, ma così tanto soddisfacente ed efficace.

Marianna Gorgitano

 

Bibliografia:

-         Dimaggio G., Montano A., Popolo R., Salvatore G. Terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità (2013). Raffaello Cortina Editore.       

-         Dimaggio G., Ottavi P., Popolo R., Salvatore G. Corpo, immaginazione e cambiamento (2019). Raffaello Cortina Editore.

-         Salvatore G. La disciplina interiore del terapeuta. Pubblicato su “State of Mind” il 20 Marzo 2015